Omelia della III Domenica di Pasqua

Fratelli e Sorelle carissimi, Pietro e gli altri discepoli avevano ricevuto la pace del Risorto; avevano ricevuto lo Spirito Santo in ordine alla remissione dei peccati; avevano ricevuto il mandato di Cristo a iniziare ad evangelizzare secondo i suoi insegnamenti. Cose grandi, immensamente grandi, sulle quali Pietro pensò di organizzare se stesso, ma senza un gran successo. Gli sembrò di non ritrovarsi più. Era frastornato: troppe emozioni. E dunque? Dunque, decise di fare un gesto pratico: andare a pescare. Sulla barca ritrovò se stesso, si sentì bene. Il vento, il mare, il dondolio della barca, i remi, la rete. Cose che gli erano familiari fin da bambino. Si ritrovò, ma un pensiero aveva, continuo: Gesù. Egli lo aveva rinnegato. Aveva ricevuto il perdono, ma quelle negazioni gli pesavano, gli impedivano una gioiosa pace. La barca, la pesca, i remi, la vela, non sortivano l’effetto voluto. Del resto, mare, barca, erano piene di memoria di Gesù. La rete gettata più volte in mare non prendeva pesce di sorta. Un pensiero aveva indubbiamente (Lc 5,10): “Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini”, gli aveva detto un giorno il Signore. Non era solo Pietro sulla barca: erano in sette. Diressero la barca verso la riva e videro che sulla spiaggia c’era uno, che sembrava fosse lì per loro, ad aspettarli. Ebbero paura, paura di se stessi: “Stiamo tutti impazzendo: lo vediamo dovunque!”. Questa la ragione per cui “non si erano accorti che era Gesù”; dico “accorti”, non perché non lo videro, visto che erano ad una distanza tale da poterne udire la voce. La ricerca di tornare al familiare era fallita; c’era da disperarsi. Non restava che eseguire il consiglio di quel fantasma, era l’unica speranza: magari fosse proprio lui! La rete si riempì. Il primo a cogliere la realtà di quella presenza fu Giovanni, colui che entrando nel sepolcro “vide e credette”; Giovanni, il discepolo vergine vede sempre per primo: “E’ il Signore!”, disse a Pietro, liberandolo da ogni esitazione. Pietro a quelle parole si rinfrancò, si entusiasmò, si buttò in mare. Gli altri invece, più calmi, portarono barca e pesci a riva. Era il Signore, che con tanta concretezza aveva predisposto anche un fuoco; c’era del pane. Nel cenacolo la concretezza della risurrezione Gesù la mostrò mangiando pesce arrostito. Ora, la concretezza Gesù la mostra con l’attenzione verso la fame dei sette, dando loro pesce arrostito da mangiare. Poi Gesù liberò Pietro dal suo disagio profondo. “Simone figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?”. Pietro rispose, ma non sul punto “più di costoro”; cosa importante, Pietro non presuppone di essere migliore degli altri. Disse: “Certo, Signore tu lo sai che ti voglio bene”. Pietro si riscatta; era caduto nel rinnegamento perché non sufficientemente umile, il sentirsi messo a capo dei dodici gli aveva dato le vertigini che lo fecero crollare. Era caduto perché si era rifugiato nel realismo dei vili e degli egoisti; proprio per questo si era con realismo messo accanto al focherello. Gesù non annullò Pietro il pescatore, ma lo trasformò in pescatore di uomini. Gli elementi della storia di Pietro vengono rispettati. Gesù parla di pescatore di uomini a uno che sa che per pescare occorre affrontare il rischio, occorre fatica, alzate notturne, pazienza, accortezza. Tutto questo diventa metafora per spiegare la sua missione. Cristo non annulla le esperienze, le purifica, le indirizza a novità. Così san Francesco d’Assisi, non vide annullata la sua esperienza di giullare delle feste, di armato cavaliere pronto alla difesa dei deboli, ma la vide resa nuova. Divenne l’araldo gioioso del gran Re, invitante al banchetto del grande Re, alla festa eterna del grande Re nel cielo. Così un soldato romano fedele all’imperatore, fino ad essere pronto a dare la vita per conquistare a lui una città, diventava pronto a lanciarsi in mezzo ai tormenti del martirio per conquistare a sé la città eterna del cielo. Irrealtà il martirio? Momento di esaltazione? No, gente che vedeva, che vedeva con gli occhi dell’anima resi sensibili, vivi, dalla fede e dall’amore. Pietro e gli apostoli scenderanno dal tempio sanguinanti, eppure lieti: “Lieti di essere stati giudicati degni di subire oltraggi per il nome di Gesù”. “Per il nome di Gesù”; cioè per la grandezza, la gloria di Gesù. Gente irreale? Gente fustigata e intimidita che è lieta? Impossibile dice il mondo; sono degli assurdi! Ma gli assurdi se colpiti non si calmano, non si chiudono in se stessi? Non erano dei pazzi quelli che scesero dall’area del Tempio rigati di sangue. Era gente che vedeva. Il libro dell’Apocalisse dice: “L’Agnello, che è stato immolato, è degno di ricevere potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore, gloria e benedizione”. Gli apostoli questo sapevano: Colui che ha dato la vita per il genere umano, è vittorioso, è risorto e siede alla destra del Padre, merita che la potenza degli Stati sia rivolta a lui, e così la ricchezza delle nazioni (Is 60,5). E a lui bisogna indirizzare le conoscenze accumulate dagli uomini, a lui ogni nostra energia. A lui l’onore, la gloria e la benedizione. Le ricchezze delle nazioni? Per la sua gloria! Per i suoi templi. Ma ancor prima, assolutamente prima per le opere di bene, per la promozione dei popoli. Guai se le ricchezze delle nazioni diventassero ornamento trionfalistico della Chiesa, guai se la allontanassero dalla gloriosa e ricchissima povertà di Cristo. Guai se troppi – ma tutti devono essere veri davanti a Dio – non dicessero più in tutta verità: “Noi ti lodiamo, ti benediciamo, di adoriamo, ti glorifichiamo, ti rendiamo grazie per la tua gloria immensa”; e ancora: “A te Dio Padre onnipotente, ogni onore e gloria per tutti i secoli dei secoli. Amen”. Voi mi direte a proposito di concretezza: Noi viviamo nel quotidiano, nella ferialità. Benissimo! Ma il santo non è a disagio nel quotidiano. L’eroe cristiano, prima di essere tale nei momenti estremi, come gli apostoli davanti al Sinedrio e alla sferza, lo è nel quotidiano. Il suo eroismo non è l’impeto di un attimo, ma la costanza di ogni giorno, la consapevolezza di dare gloria a Dio anche nelle piccole cose fatte con diligenza e amore. Diligenza promossa dall’amore. Non un’azione che vuol dimostrare di sapere vincere pigrizia e fatica, e basta. Ma come veramente si vince la fatica e la pigrizia? Certo, con l’amore! Uno prende un mozzicone di sigaretta per terra e lo mette nel cestino dei rifiuti? Fa un’azione che riguarda il rispetto dell’ambiente, che è un bene di tutti, e non solo per vincere la pigrizia e la fatica del chinarsi. L’ascetismo ha la sua molla nella carità. Un digiuno senza preghiera, è una dieta, o una forma di protesta. Un digiuno senza amore è soddisfazione della “carne”, pur sembrando a prima vista contro la “carne”. Oggi più che mai il mondo ha bisogno di uomini veri, visto che ciò che è amato è l’apparire e non l’essere veramente. I santi non erano una fiction, erano, sono, verità constatabile nel trascorrere del quotidiano. Ma chi non lascia di essere un pescatore, un ingegnere, un milite non può dire: “Io ero un pescatore…Io costruivo case, ora mi adopero per le pietre vive…Io ero un militare, e ora sono nella disciplina di un convento, per una missione di umiltà e di amore”. Certo, ma si può seguire Gesù anche rimanendo nella propria professione. Si può dire e si deve dire: “Io pensavo solo alla mia professione, ora penso a fare del bene e uso la mia capacità di avvocato, di tecnico, non per il guadagno, ma perché il lavoro è comunione con gli altri, bene per tutti”. E’ questo un seguire Cristo nel portare le realtà professionali, scientifiche, tecniche, verso il bene comune. Il pescatore può ben dire: “Io sono un pescatore e il mio mestiere mi mette a contatto con le realtà del mare. Il mare mi porta a Dio, ai fratelli; e quando torno a casa cerco di fare un po’ il pescatore di anime tra gli amici”. “Io sono un infermiere, ma ho capito che per fare bene il mio lavoro devo essere anche infermiere delle anime con buone parole, con un sorriso”. “Io sono un militare. Sono uno che vive nella disciplina e nella generosità. Non faccio fatica a capire che per seguire Cristo, essere parte della sua milizia d’amore, occorre obbedire ed essere audaci e cerco di far capire questo a chi mi è vicino”. I coniugi possono ben dire: “Il nostro amore non ci chiude agli altri, ma alimentandosi in Cristo, ci apre agli altri. Tra noi due c’è il Signore che ci tiene uniti. Abbiamo momenti nostri, per noi due, per ascoltarci, comprenderci, ma ciò non ci chiude agli altri”. Così, fratelli e sorelle, se non siamo chiamati a lasciare tutto per seguire Cristo come Pietro, gli apostoli, i consacrati, ugualmente dobbiamo lasciare qualcosa. Che cosa? Lascia per Cristo lo spirito del mondo. Sarai libero, nuovo, concreto, nella luce della fede, nella fiamma dell’amore.

Laudetur Iesus Christe. Semper Laudetur

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